È già novembre e “Fare Voci” entra nel vivo di un nuovo numero che si muove in questo tempo presente difficile e delicato.
E lo fa iniziando da una voce importante come quella di Alessandro Moscè, al cui percorso poetico è dedicato il volume “In casa e nell’aldilà”, raccolta di testimonianze critiche curata da Paolo Ruffilli.
La traduzione è sempre più occasione di nuovo confronto e apertura, è dialogo e ascolto, ed è l’occasione per leggere in italiano due poesie della poetessa slovena Petra Koršič, “BITI” e “Travnik”.
Con questo numero inizia “Testo unico”, una nuova rubrica a invito, con la quale chiediamo ad una autrice, ad un autore, di scegliere una poesia e di proporne il proprio commento. Cominciamo con l’ospitare Annalisa Ciampalini, che ha scelto “Crepuscolo” (Twilight) del premio Nobel Louise Glück.
Le nuove uscite di poesia che proponiamo sono quelle di Marco Di Pasquale “La mano del mondo”, di Sebastiano Gatto con “I dì de San Mai”, di Maddalena Lotter con “Non è la fine del mondo” e “Undici anni e mezzo di silenzio” di David Bandelj, raccolta con cui l’autore dà voce alle emozioni provate dopo un viaggio ad Auschwitz…
“A novembre si rinasca” è il testo inedito di Antonio Cassuti.
Le immagini sono quelle di un’artista che “Fare Voci” segue da diverso tempo, e che ritroviamo in questo numero: Silvia Argiolas.
Buona lettura
Giovanni Fierro
(la nostra mail è farevoci@gmail.com)
Immagini ——————–
Belle brutte storte e morte
di Silvia Argiolas

Voce d’autore —————-
Il fare poesia di Alessandro Moscè
di Giovanni Fierro

È un libro articolato e corposo “In casa e nell’aldilà”, raccolta di testimonianze critiche sulla poesia di Alessandro Moscè, e curato da Paolo Ruffilli.
È un lavoro che porta il lettore ad approfondire il fare poesia di una delle figure più riconosciute del panorama letterario contemporaneo.
Autore di raccolte di poesia ma anche di romanzi, critico letterario e attento testimone della nostra vita culturale, Alessandro Moscè già da tempo ha costruito la propria voce autoriale, libro dopo libro, in un percorso che lo ha visto sempre più immerso nella consapevolezza di stare al centro della poesia.
E questo percorso di scoperta e maturazione è esplorato in “In casa e nell’aldilà” che, attraverso i vari contributi critici, aiuta a delineare il suo muoversi nell’arte della scrittura.
A partire dal suo esordio nel 2005, “L’odore dei vicoli”, di cui Claudio Damiani notava che “in Moscè la salvezza è nell’opporre al vedere, o al cercare di vedere, il sentire”; e del successivo “Stanze all’aperto”, datato 2008, Ottavio Rossani coglieva la sua particolarità di scrittura: “I versi di Moscè sono volutamente brevi. Con il loro ritmo acceso, scandiscono una specie di orologio biologico delle visioni. Sui dati reali, sulle cose che si classificano come reperti del presente e del passato, sedimentano lampi di fuoco, si sviluppano istantanee, che diventano ‘materiale di accumulo’, per un repertorio che riguarda il futuro”.
Il suo scrivere è dunque questo continuo mettersi alla prova del reale, sconfinando necessariamente nella percezione, nel sentire il mondo e chi lo vive. Perché “la poetica di Alessandro Moscè è la liberazione del sensibile”, come ben testimoniato da Rossella Frollà.
Nel 2013 è poi il momento di “Hotel della notte”, in cui Bianca Garavelli ha sottolineato che “c’è l’esplorazione del proprio tempo di origine, ma il libro ha un respiro più ampio e fin dall’inizio si apre a visioni di viaggio, così come al tempo della notte, in qualche modo luminosa, del giorno con le sue tranquille ripetizioni”, a cui si può aggiungere la nota di Mirella Vercelli, “Il suo è un parlare sottovoce con lo sguardo fisso in qualche punto davanti a sé di un uomo che ha compiuto una personale discesa nel pozzo del dolore e racconta ciò che ha visto, senza necessità di accentuare o sminuire nulla, perché il paesaggio fuori e dentro di sé si lascia facilmente descrivere”.
Così il percorso d’autore di Alessandro Moscè trova compimento totale in “La vestaglia del padre” del 2019, raccolta di poesie che testimoniano la scomparsa di suo padre, testi nei quali Davide Tartaglia ha messo in evidenza che “ciò che colpisce è la capacità con cui una scrittura così apparentemente orizzontale, attaccata alle cose e alla ferialità, non rimanga mai a mezz’aria, ma scatti improvvisamente verso l’alto o verso l’abisso”.
Il volume più recente è “Per sempre vivi”, datato 2024, dove “i ‘per sempre vivi’ sono le densità persistenti e le comunioni con chi non c’è più, che rimangono nelle nostre linee di vita come tracce di eterno”, come ha indicato Andrea Galgano. E queste sono pagine dove “la morte è arginata esaltando la vitalità: cioè l’infanzia e l’erotismo, l’affettività nei confronti dei nonni e del padre in particolare, la tensione trascendente”, significato che Maria Allo ha colto perfettamente.
Quella tracciata finora è solo una delle possibili mappe per esplorare quanto Alessandro Moscè ha fatto finora nel suo scrivere poesia, e non solo. E questo volume, dal titolo tanto bello quanto ben calibrato, “In casa e nell’aldilà” è davvero frase che tutto contiene e tutto valorizza, è la bussola necessaria per addentrarsi nella sua geografia di parole al servizio dello scrivere.

dal libro:
Il fango del giardino
risucchia le mie scarpe
e la destinazione della notte
attraverso occhi spalancati.
Mi fermo e dico
che non è vero niente,
che la morte non esiste,
che ci lega ad un’ossessione,
al sogno del suo stesso trucco.
Potrei chiamare ad un telefono,
sentire la voce di mio nonno
che non si è persa
nel fondo della strada.
Corre via la morte,
randagia più di me
da ”Hotel della notte” 2013
*
Lo sanno
La polvere nascosta nella camera da letto,
gli interstizi delle mattonelle nel pavimento dell’atrio
e gli armadi a muro lo sanno
che non ci sei più.
Lo sa la borsa dell’acqua calda
sotto la vestaglia che indossa qualcun altro
che dalla cucina maschera un sospiro infaticabile
non credendo che il nulla sia nulla,
in un marzo discreto di mezzo sole
che arriverà nei glicini rampicanti e nel bianco sfumato delle azalee.
Lo sa la signora garbata del piano di sopra che non parla
e lo sanno le cravatte annodate sulle grucce,
chiuse al buio che non vediamo
da “La vestaglia del padre” 2019
*
Qui c’è aria di aldilà
di più non so dire.
Qui sembra tutto finito
e se mi dicessero
che il vento è il mio fiato
ci crederei stringendomi a me
per l’ultima volta.
Invece domani mi sveglierò
alla solita ora
da questa morte provvisoria
che viene a parlarmi
di notte, quando si annoia.
È discreta, non mi chiede
di seguirla nel crepuscolo cinereo
sa bene che si nasce e si muore
più volte senza scongiuri
fino all’alba.
La morte entra ed esce da me
mi acquieta, non ne ho paura
da “Per sempre vivi” 2024
*
Un tacco a punta per cui l’occhio pianta il tempo
un soffio sotto la vela di luna e nebbia
l’oroscopo settimanale dell’ansia
di tutta una città aperta.
Un uomo scialbo che dà sui nervi
una donna piegata che cammina a onde
un esiliato con i capelli color mogano
un signore tremante che aspetta il figlio
e tutta questa vasta umanità
che non sa niente della bellezza di Afrodite
delle famiglie che traballano nelle case
delle preghiere dentro le chiese.
Si ignorano sempre le altre metà…
inedito

Intervista ad Alessandro Moscè:
“In casa e nell’aldilà” è anche, in qualche modo, il fare il punto sul suo percorso di poeta. Cosa ne pensa a riguardo? Come si vede in questa cornice?
Il libro è un omaggio che ha voluto farmi la casa editrice Quid di Fabriano, nata da poco. La provincia può riservare sorprese quando uomini e donne attenti sia al panorama locale che a quello nazionale hanno ancora il coraggio di occuparsi di poesia e saggistica.
“In casa e nell’aldilà” è un titolo concordato con l’editore: sono selezionate le numerose testimonianze di critici e poeti che nell’arco di un ventennio si sono occupati della mia poesia: dall’esordio, avvenuto nel 2005, fino all’ultimo libro, che è uscito a marzo del 2024. Si tratta di un quadro unitario che mette in luce i connotati della mia poetica, credo già ben delineata dall’inizio con la plaquette “L’odore dei vicoli”, uscita per I Quaderni del Battello Ebbro. L’ultima raccolta, “Per sempre vivi”, edita da Pellegrini, è forse il mio punto d’arrivo, come sostenuto dal poeta Tiziano Broggiato, curatore della collana.
“In casa e nell’aldilà” mi sembra un libro compatto, ben scandito in passaggi cronologici e con una bibliografia completa, corredato da un apparato antologico in cui sono presenti i testi più significativi e degli inediti. Un libro ibrido, che finora è stato accolto positivamente sia per il contenuto che per l’innovativa veste grafica.
Il poeta Paolo Ruffilli si è occupato della prefazione e nella copertina l’editore ha inserito una foto scattatami da Dino Ignani all’Auditorium Conciliazione di Roma durante la kermesse internazionale “Ritratti di Poesia”.
Sono cinque le raccolte poetiche che ha pubblicato. Quale pensa sia il filo rosso che le unisce, che le avvicina, che ne crea un susseguirsi nel suo essere poeta?
Il filo rosso dell’opera omnia si ramifica in più direttive che ricorrono costantemente. L’insieme di voci, immagini e restituzioni della memoria stabiliscono il dialogo tra i vivi e i morti, gli affetti familiari, le figure dei nonni, il mito dell’infanzia, i luoghi prediletti, marchigiani, tra cui Fabriano, la città dove vivo, una patria sentimentale, di conoscenze sensoriali e una realtà quotidiana di vie, piazze, giardini.
Quindi Ancona, Pesaro, Porto Recanati e Roma, quest’ultima una specie di isola favolosa, più immaginifica che reale, dove negli anni Settanta lavorava mio padre, che tornava a casa il venerdì notte e ripartiva il lunedì mattina prima dell’alba. La mia terra è quella del grande recanatese e del colle dell’infinito, pertanto il mio orecchio è allenato al canto, alla lirica, non ad una tendenza sperimentale, gergale.
La mia poesia nasce soprattutto dall’esperienza e dalla testimonianza priva di filtri e di derive teoriche. Nelle cinque raccolte c’è un vasto repertorio di protagonisti: Ruffilli ha riscontrato figure umane rese diafane e lattiginose da uno schermo che, mentre le vela, nella loro improvvisa luminosità anche le rivela. Una cosa simile l’ha intuita Paolo Lagazzi: “Un senso quasi continuo di perdita attraversa la lirica di Alessandro Moscè, ma l’originalità del poeta, la sua forza stilistica e mentale sta nell’esprimerlo in modi insieme asciutti e svagati, lasciando emergere dal fondo della vita immagini colte di sbieco, come da una svista”.
Consapevolmente e per vocazione procedo sull’asse cartesiano della terza generazione. Amo in particolare Giorgio Caproni, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Vittorio Sereni, il loro muoversi nella diade spazio/tempo e vita/morte, nella finitudine di un destino comune. Tra i contemporanei di oggi cito Francesco Scarabicchi e Stefano Simoncelli.
Ha dato alle stampe anche quatto romanzi. Poesia e narrativa, in questo suo scrivere, in che modo si influenzano? C’è un contatto, una condivisione, fra queste due modalità di espressione?
La poesia è istintuale, perfino primitiva, come sosteneva Alda Merini. La prosa è una pianificazione ideale. Ciononostante ci sono punti in comune tra i due generi, perché la materia è la stessa, ma elaborata con una struttura e una lingua differenti.
La provincia anconetana è il luogo primario del mio ultimo romanzo “Le case dai tetti rossi” edito da Fandango nel 2022. Lo stesso nella prima narrazione, una novel non fiction dal titolo Il talento della malattia uscita nel 2012 da Avagliano e che inaspettatamente si è rivelata un successo editoriale, tanto che erano sul punto di farne un film con protagonisti Stefano Dionisi e Anita Kravos, ma la Film Commission ministeriale non lo finanziò e il progetto non ebbe seguito.
Alcuni autori riescono perfino a proporre una scrittura miscellanea, con versi e brani narrativi alternati. E’ lo stile che distingue la buona qualità della letteratura. Non dimentichiamo che stando solo al secondo Novecento Giorgio Bassani, Alberto Bevilacqua, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi erano narratori di primo piano e anche eccellenti poeti.
Il luogo del quotidiano (Fabriano) e dell’infanzia e degli affetti (Ancona) sono l’humus che contraddistingue la sua poesia. Cosa significa per lei viverli e raccontarli in poesia?
Parliamo di un luogo come humus che racchiude un’età passata, fuggevole. È un nutrimento terrestre, un mezzo, dunque, con cui raccontare l’epifania quotidiana. Tutte le province si assomigliano e l’evocazione scaturisce da un’essenza privata che si fa corale. Scrivere come gesto di conoscenza: che senso ha vivere qui e non altrove, in un luogo alienato come qualsiasi altro, si chiedeva Franco Scataglini, da Ancona, la sua città di scoglio? In questa conservazione attiva faccio parte della tradizione marchigiana novecentesca. Riporta Francesco Napoli che “ci sono sempre le Marche per Moscè, che sono e restano di fatto il centro geografico. Il padre è ritratto quasi alla maniera di Anna Picchi, la madre di Caproni, ritrovato in quadri caratterizzati dall’identità tra poesia e vita in cui risaltano le forme dell’esistenza più innocenti”. Nella rêverie dei luoghi i morti viaggiano in un percorso fulgido, in un’incarnazione che li riporta dove sono sempre stati e adunati in un albergo visionario tra Fabriano e Ancona.
A tal proposito nella raccolta “Hotel della notte” (Aragno, 2013) personaggi “distanti” si lasciano raccontare e ne seguo ombre e passi per riscoprirne la vitalità e la vicinanza. L’hotel immaginario è un non luogo. Non potrebbe essere diversamente, perché dentro il vuoto della morte la vita allude alla presenza-assente. Il giardino pubblico di Fabriano, invece, è quello di una volta e lo guardo con gli occhi di un ragazzo.

C’è nella sua poesia il desiderio – e mi viene da dire la certezza – di portare nella vita di ogni giorno anche il presente di chi non c’è più (in primis suo padre). Cosa significa per lei costruire questo luogo che contiene dimensioni diverse, dove la percezione è atto di fiducia e di contatto con chi, apparentemente, ha lasciato in questo mondo solo la propria assenza?
Qualcuno ha detto che sono uno scrittore metafisico. La presenza di Dio, la sua mano invisibile, il precipizio nell’abisso, la morte del corpo coesistono nella compresenza dei vivi e dei morti. Nei miei libri emergono la certezza e il dubbio, l’aldilà.
Nella sezione dal titolo Dialoghi con mio padre contenuta nella raccolta “La vestaglia del padre” (Aragno, 2018), in un sogno crepuscolare chiedo di conoscere la verità su Dio. Cito la poesia Ad ogni ora: “Una volta, una volta sola/ dovrebbe aprirsi l’accesso di una cantina sotto le scale/ in quel passaggio che assomiglia alle uscite di sicurezza/ dove darsi la mano, guardarsi tre, quattro secondi/ e salutarsi con gli occhi arrossati./ Oppure comporre un numero telefonico,/ sentire un fruscio di correnti, un buongiorno / e nient’altro./ Sono sogni che ci farebbero trovare pronti/ ad ogni ora, specie di notte,/ con il batticuore sotto il pigiama/ e una pila in mano,/ tu con la vestaglia regale del padre”.
Lo sguardo è motore fondamentale nella sua scrittura. Come diceva Burroughs, ogni parola è un’immagine. Questo pensiero vale anche per lei?
Non sono un poeta contemplativo, né naturalistico, ma amo descrivere. L’immagine è sempre un fondamento della scrittura, con le persone, gli animali, gli agenti atmosferici, ma anche gli spazi interni, i pianerottoli, gli appartamenti, le stanze. L’elemento visionario è un’altra peculiarità della mia scrittura poetica e narrativa.
A proposito di immagini mi viene in mente Dolores Prato con il suo romanzo autobiografico di 1.058 cartelle, “Giù la piazza non c’è nessuno”, terminato a quasi novant’anni e pubblicato integralmente nel 1987 da Mondadori. Prato racconta un borgo maceratese dove la protagonista visse in un educandato salesiano. Ci sono pagine e pagine in cui viene descritto un muro alla maniera proustiana, con un linguaggio fluido e mai banale. La scrittura di immagini è sempre un caleidoscopio, un flusso continuo che procede per frammenti.
Il suo sguardo si pone spesso su chi vive ai margini, su chi frequenta la fragilità, su chi rischia anche di essere dimenticato. Cosa la porta a fare questo?
Mi interessa la marginalità perché è molto più interessante la vita degli ultimi, dei diseredati, degli esodati, degli extracomunitari che vivono in uno stato di indigenza, spesso sotto la soglia della povertà. Ma anche il malato psichiatrico è un soggetto primario. La mia scrittura vibra di un’intima tensione e tesse la trama delle esistenze su un piano dove si incontra l’altro.
Pierino, l’omino della casa di riposo di Fabriano, dove è vissuto per sessant’anni, conservava i suoi lemuri, parlava con la Madonna, dava voce alla madre morta attraverso una parete divisoria in una sorta di reificazione, compiva riti apotropaici.
Soprattutto la poesia affronta il corpo smisurato del tempo, la sua sospensione. Se guardo al presente lo faccio spesso attraverso le creature più fragili e dotate di una coscienza, che si sono smarrite e mai più ritrovate. Sono uno dei pochi guariti da un male raro, un sarcoma di Ewing contratto a tredici anni che mi ha costretto ad una lunga degenza nell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna. Per questo racconto gli ospedali, i pazienti. Penso ad un grande libro, “Tutti i bambini tranne uno” del francese Philippe Forest, dove emerge una scrittura capillare. Forest racconta la malattia e la morte della figlia Pauline dal primo all’ultimo giorno. I corpi amati scompaiono, mentre le parole testano, seppure non abbelliscano nulla.
Come vede il ruolo del poeta nella società contemporanea?
È in una fase remissiva, a tal punto che la poesia esiste per gli addetti ai lavori e non più per un vasto pubblico. In questo declino apparentemente irreversibile contribuisce l’assoluta autoreferenzialità dei poeti stessi, la loro incapacità di farsi promotori di una comunità, di collaborare senza pregiudizi, mitigando la rivalità.
Ci sono divisioni che dipendono anche dal rigurgito di ideologie mai superate, da sovrastrutture che non hanno nulla a che fare con il valore letterario, nonostante la nostra sia un’epoca post ideologica e post capitalistica. La costipazione della comunicazione, come la definisce il critico e storico Giulio Ferroni, ha di fatto soppiantato la conoscenza.
L’eccesso quantitativo delle notizie soffoca ogni approfondimento riflessivo, meditativo. Stiamo assistendo impotenti alla malattia del linguaggio, ad una lingua sempre più approssimativa e mercantile, dettata dalla sovranità del web e dei social network. Il poeta parla al mondo, certamente. Lo fa attraverso una parola anacronistica.
Come diceva il grande Mario Luzi, la poesia ha perseguito il sogno continuamente deluso e continuamente ripreso di un mondo meno ingiusto. Questo sogno continuerà, seppure contrastato dalle codificazioni della tecnologia.

L’autore:
Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Si occupa di letteratura italiana. Ha pubblicato le raccolte poetiche “L’odore dei vicoli” (2005), “Stanze all’aperto” (2008), “Hotel della notte” (2013, Premio San Tommaso D’Aquino), “La vestaglia del padre” (2019) e “Per sempre vivi” (2024, Premio Poesia del Mezzogiorno).
È presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato il saggio narrato “Il viaggiatore residente” (2009) e i romanzi “Il talento della malattia” (2012), “L’età bianca” (2016), “Gli ultimi giorni di Anita Ekberg” (2018, finalista al Premio Flaiano) e “Le case dai tetti rossi” (2022, Premio Prata).
Ha dato alle stampe l’antologia di poeti italiani contemporanei “Lirici e visionari” (2003); i libri di saggi critici “Luoghi del Novecento” (2004), “Tra due secoli” (2007), “Galleria del millennio” (2016), l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento “The new italian poetry” (2006) e la biografia “Alberto Bevilacqua. Materna parola” (2020).
Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva” e scrive sul quotidiano “Il Foglio”. Ha diretto il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”.
(“In casa e nell’aldilà. Testimonianze critiche sulla poesia di Alessandro Moscè” a cura di Paolo Ruffilli, pp. 201, 18 euro, quid edizioni 2025)
Immagini ——————–
Senza titolo
di Silvia Argiolas

Tempo presente ——————
BITI, Travnik
Due poesie inedite in italiano
di Petra Koršič

BITI
≈ 1
biti ena
“Il nostro destino e quello del fiume sono intrecciati.«
ꟾ usodi sta prepleteni ꟾ
Tilment, reka v severovzhodni Italiji,
velja za zadnjo morfološko
nedotaknjeno reko v Alpah –
njen tok ni bil spremenjen
s človekovimi posegi.
O njej sta pisala Pier Paolo Pasolini
in Cristina Noacco,
ki raziskuje tudi reko Ter,
navdihovalko in govorko te pesmi.
ꟾ doma sem v furlanski nižini ꟾ sem ꟾ
prod ꟾ kamenček ob kamenčku ꟾ name sije ꟾ
sonce ꟾ in sem ꟾ suha ꟾ struga ꟾ reke ꟾ ki je ni ꟾ
sem beseda ꟾ rečno dno ꟾ brez vode ꟾ
šele ona ꟾ ki je ꟾ tu ꟾ ni ꟾ mi daje ꟾ ime ꟾ
mati reka ꟾ padre fiume ꟾ
≈ 2
biti dve
ꟾ nekaj so me odpeljali na dvorišča hiš ꟾ nekaj
dali v zidove nekaj
v lončnice ꟾ da zadržim
vodo in rože lažje uspevajo ꟾ najbolj
doma sem ꟾ kjer me
je največ – ꟾ tam sem t e l o * ꟾ
*»Ho voglia di essere nel Tagliamento,
a lanciare i miei gesti uno dopo l’altro
nella lucente concavità del paesaggio.
Il Tagliamento, qui è larghissimo.
Un torrente enorme, sassoso,
candido come uno scheletro.«
Pier Paolo Pasolini:
Lettera a Luciano Serra
del giugno 1943
ꟾ četudi odnese prst ꟾ del obrežja roko lase srce ꟾ dolgo sem
mučila nebo ꟾ kdaj pride voda ꟾ stavila
na vsako ploho ꟾ seštevki
ne dajo ꟾ da sem ꟾ kar sem ꟾ
≈ 3
biti tri
ꟾ čutim v ptičjem petju ꟾ prihaja
z neba ꟾ voda lahko naplavi ꟾ mene ꟾ vse
več me je ꟾ in odstavljam ꟾ na bregove ꟾ
voham dež ꟾ praznik ꟾ ko sem visoka ꟾ
pride volk pit ꟾ pije dolgo ꟾ je tisti
dan ꟾ ko v meni leži mesec ꟾ okrogel
in cel ꟾ lisice si božajo rep
in upajo ꟾ da bi volku počil
trebuh ꟾ da ostane
na mojem dnu ꟾ kolo
sira* ꟾ samo zanje ꟾ
*Pravljični motiv iz Benečije.
ꟾ če se zdaj nasujem
vanj ꟾ bo potonil
na moje dno ꟾ in ugriznil
prvi ꟾ
≈ 4
biti štiri
ꟾ rebra se širijo ꟾ n e k a j * je notri ꟾ in si jemlje prostor ꟾ
*Življenjska sila Ter,
ki je, tudi ko je njena struga suha,
reka.
ꟾ s sklenjenimi dlanmi ꟾ objemam ꟾ da ne pobegne ꟾ
ꟾ t i s t o **ꟾ ki je ꟾ vedno notri ꟾ
** Usodi človeka in reke sta prepleteni.
Si želimo (za)betonirati bregove –
si želimo (za)cementirati s r c e?

ESSERE
≈ 1
essere uno
“Il nostro destino e quello del fiume sono intrecciati.”
ꟾ i due destini sono intrecciati ꟾ
Il Tagliamento, fiume del nord-est italiano,
è considerato l’ultimo fiume morfologicamente intatto delle Alpi –
il suo corso non è stato modificato da interventi umani.
Ne hanno scritto Pier Paolo Pasolini
e Cristina Noacco, che studia anche il fiume Torre,
ispiratore e voce di questa poesia.
ꟾ sono originario della pianura friulana ꟾ sono ꟾ
ghiaia ꟾ ciottolo dopo ciottolo ꟾ splende su di me ꟾ
il sole ꟾ e sono ꟾ asciutto ꟾ letto ꟾ del fiume ꟾ che non c’è ꟾ sono parola ꟾ
fondo fluviale ꟾ senz’acqua ꟾ
solo lei ꟾ che ꟾ qua ꟾ non c’è ꟾ mi dà ꟾ il nome ꟾ
madre fiume ꟾ oče reka ꟾ
≈ 2
essere due
ꟾ un po’ mi hanno portato nei cortili delle case ꟾ un po’
messo nei muri un po’
nei vasi ꟾ per trattenere
l’acqua e far crescere meglio le piante ꟾ mi sento
più a casa ꟾ dove
sono di più – ꟾ lì sono c o r p o * ꟾ
*»Ho voglia di essere nel Tagliamento,
a lanciare i miei gesti uno dopo l’altro
nella lucente concavità del paesaggio.
Il Tagliamento, qui è larghissimo.
Un torrente enorme, sassoso,
candido come uno scheletro.«
Pier Paolo Pasolini:
Lettera a Luciano Serra
del giugno 1943
ꟾ anche se porta via terra ꟾ un pezzo di sponda mano capelli cuore ꟾ a lungo ho
torturato il cielo ꟾ quando verrà l’acqua ꟾ ho scommesso
su ogni temporale ꟾ le somme
non bastano ꟾ a fare di me ꟾ ciò che sono ꟾ
≈ 3
essere tre
ꟾ lo sento nel canto degli uccelli ꟾ arriva
dal cielo ꟾ l’acqua può inondare ꟾ me ꟾ sono
sempre di più ꟾ e mi deposito ꟾ sulle rive ꟾ
sento l’odore della pioggia ꟾ festa ꟾ quando sono grande ꟾ
viene il lupo a bere ꟾ beve a lungo ꟾ è quel
giorno ꟾ quando in me giace la luna ꟾ tonda
e intera ꟾ le volpi si accarezzano la coda
e sperano ꟾ che al lupo scoppi
la pancia ꟾ e resti
sul mio fondo ꟾ una forma
di formaggio* ꟾ solo per loro ꟾ
*Mito fiabesco della Benecia.
ꟾ se ora mi riverso
in lui ꟾ affonderà
sul mio fondo ꟾ e morderà
per primo ꟾ
≈ 4
essere quattro
ꟾ le costole si allargano ꟾ c’è q u a l c o s a * dentro ꟾ e si prende spazio ꟾ
*La forza vitale del Torre,
che è, anche quando il suo letto è asciutto,
un fiume.
ꟾ con le mani giunte ꟾ abbraccio ꟾ perché non scappi ꟾ
ꟾ q u e l l o ** ꟾ che è ꟾ sempre dentro ꟾ
** Il destino dell’uomo e del fiume sono intrecciati.
Vogliamo cementificare le rive –
vogliamo murare il c u o r e?

(La poesia “BITI ESSERE” è tratta dal libro “ZLATO JAJCE” (Uovo d’oro), edito dal centro culturale KUD Apokalipsa, 2024. pp. 9–14; la poesia ha ricevuto il premio dell’Associazione di Slavistica della Dolenjska e Bela krajina nel 2022)
Travnik
Žrtve smo, ne dokler mislimo in čutimo,
da smo, ampak dokler se polaščamo
privilegiranega položaja, tičimo, skrčeni
vase, in gradimo svoj mogočni ščit,
napuh. Kroglica smo, ki se vedno znova
izstreli in kroži po spiralni cevi, vzpenja se,
a sila lastne težnosti jo spet vrača na dno,
ko popusti vzvodna moč. Zrak veje zunaj,
a skozi cevi ne dospe. Vsak dotik
je le navidezen skozi steklene stene.
Vidimo in zaznavamo, vendar smo si
sami prikrajšali možnost, da bi doživeli
veter, ki podobno, kot kroglice v cevi,
zunaj dviga liste s tal, da poletijo,
zaplešejo nad tlemi in se spet spuščajo.
Kako zadržati mehkobo, ko v dlaneh
pobožam tvoje oči in jih poljubljam
na veke, kako razširiti trenutek, ko
najina kazalca stiskata trepalnico in
čakava naključje, na kateri blazinici
bo ostala. Kako izpisati pričakovanje,
kdaj se bo med plesom tvoja dlan
spet usedla v mojo in bova tako letela
čez deželo žrtev, zbitih k tlom. Šele
ko zapišem, postane resnično. Šele
ko se zavem, da sem spet v ringu
s strahom, se osvobodim vloge.
Potem občutim, da v ušesih ne žvečim
pepela, ampak so moja usta prostor,
kjer leti in poseda metulj, ki ga boža
tvoj jezik – rad bi obletel travnik.
Odkar sem v sebi, je moje telo krog.
Prato / Piazza della Vittoria
Siamo vittime, non fino a quando non pensiamo e sentiamo
che siamo, ma fino a quando ci impadroniamo
di una posizione privilegiata, schiacciati, ridotto
a te stesso, e costruiamo il nostro possente scudo
di arroganza. Siamo una sferetta che viene ripetutamente
sparata e circola per un tubo a spirale, si arrampica su,
e la forza di gravità la porta nuovamente al fondo,
quando diminuisce la spinta. L’aria soffia di fuori,
non arriva attraverso il tubo. Ogni tocco
è solo apparentemente attraverso pareti di vetro.
Vediamo e percepiamo, tuttavia ci siamo
da soli privati l’opportunità, che proverà
il vento, che simile, come sfere nel tubo,
fuori solleva le foglie da terra, che decollano,
ballano sopra la terra e tornano giù di nuovo.
Come trattenere la morbidezza, quando nelle mani
accarezzo i tuoi occhi e li bacio
sulle palpebre, come allungare il momento, quando
i nostri indici stringono la ciglia e
aspettiamo una coincidenza, su quale polpastrello
rimarrà. Come scrivere l’attesa,
quando durante il ballo la tua mano mano
starà affondando nella mia e così voleremo
sopra la terra delle vittime, costrette a terra. Non prima di
quando scrivo, diventa reale. Solo
quando sono conscio, che sono tornato sul ring
con la paura, mi libero del ruolo.
Dopo sento che nell’orecchio non mastico
cenere, ma la mia bocca è uno spazio
dove vola e si posa una farfalla, che accarezza
la tua lingua – vorrei sorvolare il prato.
Da quando sono in me, il mio corpo è un cerchio.
(“BITI” è tradotta in italiano da Jasmin Franza, “Travnik” da Enrico Bertacin)

L’autrice:
Petra Koršič, poetessa slovena, è anche critica, curatrice e autrice del programma radiofonico “Rhyme into the ether – Rhyme into the wind” (Radio Student); è autrice dei cicli di poesia “Translation on the Window”, “Criticism to nudity”, “On the Poetic Tandem”, “Space in/and Poems”, “New Book through Criticism” e del ciclo sinergico “AD HOC”, che unisce poesia, musica e belle arti.
Ha pubblicato cinque raccolte di poesie: “Furlanka je dvignila krilo / Rosso di sera bel tempo si spera” (2017), “Bog z mano / God be with Me and Manna” (2019), “Moja zrnka / My pomegranate seeds” (in Štirje kvarti / Four quarters (2023)), “Ciprese / Cypresses” (2024), “Zlato jajce / The Golden Egg” (2024).
Ha ricevuto il Lirikonfestov zlat 2016, premio della Società slava della Slovenia, nel 2024 ha ricevuto il premio Stritar dall’Associazione degli scrittori sloveni per la critica.
La sua raccolta “Mirijada srca / Miriade di cuori” è stata nominata per il premio Svetlobnica 2024 e nel 2025 ha ricevuto il primo premio Mladika per la poesia per il ciclo “Votivne slike / Immagini votive“.
Immagini ——————–
Belle brutte storte e morte
di Silvia Argiolas

Voce d’autore ——————–
Eco, ne l’afa petalissa Ecco, nell’afa appiccicosa
Sebastiano Gatto, “I dì de San Mai”
di Roberto Lamantea

Sgnanfo e Bassotto sono due “compari addetti al verde del Comune”. Bisogna immaginarli a Venezia, tra calli, rive, canali, masegni che “peripateticamente ragionano/ in attesa del bus […] con in corpo una birra e fra le dita/ una cicca aspirata fino al filtro”. Ma bisogna ascoltarli così: “”Chissà che i turisti se nega.”/ “To pare xé un toco de merda.”/ “Mi el tuo lo coparìa””. Ecco, Venezia è così, o meglio: era così. E non sono insulti e maledizioni quelli che si gettano l’un l’altro Sgnanfo e Bassotto: tra la ramazza e le foglie secche, dietro l’angolo, c’è sempre un’osteria e un buon bicchiere di bianco.
Un’altra scenetta vede un “milord”, un signorino “in Loden verde e Borsalino“, buttare in terra una cartina “e po va vanti e fa finta de pomi” (“e poi tira dritto e fa finta di niente”): ma quando la spazzina lo vede attacca: “Varda sto qua/ i cani de só morti./ No ti vedi che go pena scoà? […] Chissà che ghe vegna un s-ciopon” (che gli venga un colpo).
Scenette veneziane, con l’eco inevitabile del teatro di Goldoni. Ma questi duetti sono sempre più rari. È una Venezia lontana quella del nuovo libro di Sebastiano Gatto, “I dì de San Mai”, pubblicato da CartaCanta nella collana “I Passatori – Contrabbando di poesia” diretta da Davide Rondoni con una bella postfazione di Isabella Panfido.
Gatto ha abitato a Venezia per vent’anni, a Santa Marta, oggi zona universitaria e un tempo uno dei rioni popolari della città; poi l’autore – Seba, per gli amici – è tornato a Mestre. Perché una Venezia lontana? Perché quella Venezia non esiste più. È difficile oggi raccontare la città del silenzio, dell’alba in punta della Dogana, dei fritoìni (i bàcari dove si gustano spiedini di pesce fritto o cichéti con un bianchéto, un’ombra di vino bianco), e non importa se sono le 6 del mattino e hai vagato tutta la notte tra ponti, canali, calli e salizade, tra pietra e acqua, la musica del silenzio e bisbigli di fantasmi innamorati. Quella Venezia non c’è più: la città del silenzio e di un dialetto-cantilena, di baruffe che si concludono inevitabilmente in osteria oggi è un rumoroso labirinto di plastica, è un palcoscenico per miliardari americani, una città con due Università (Ca’ Foscari e IuaV), un’Accademia di Belle Arti e un Conservatorio di musica, che espelle i giovani, che spenna i turisti, la città dei borseggi che neanche a Napoli, del cibo di plastica, una Las Vegas del rumore. Altro che il teatro di Goldoni.
Per leggere questo bel libro di Sebastiano Gatto bisogna sapere tutto questo. Allora anche i siparietti comici, le baruffette condite di improperi in veneziano non hanno più la loro buffa grazia antica, sono sopravvivenze, se ne ha nostalgia.
I dì de San Mai – “locuzione che, letta tutta d’un fiato, suona come una formula magica o apotropaica e che, per significato, è assimilabile a campa cavallo, alle calende greche, aspetta e spera – è non un mai rivolto al futuro, ma al passato, come se tutta quella vita non fosse mai stata vissuta: “filastroca dei dì de San Mai,/ de chi che speta e spera,/ filastroca che tanto, prega el tó Dio,/ sta serto che no i torna indrio””.
Ciò che non torna indietro, anzi prelude a una nuova pagina della storia e della vita quotidiana, ha una voce di ferro, cingoli, ruggine: non è un canto ma un pianto. C’è un punto alto in questo libro: è il grido di una macchina a intonare il nostro paesaggio, a essere requiem del passato e annuncio – ancora da decifrare – di ciò che sarà: “El pianto de l’inceneritor” (Il pianto dell’inceneritore) che il poeta veneziano ricalca su uno dei testi più intensi e struggenti di Pier Paolo Pasolini, “Il pianto della scavatrice” da Le ceneri di Gramsci. Ricordate l’incipit? “Solo l’amare, solo il conoscere/ conta, non l’aver amato,/ non l’aver conosciuto”. Nella periferia romana di polvere e cantieri edili che sarà lo scenario del suo primo cinema, nei giovani delle borgate Pasolini vedeva una grazia che l’omologazione avrebbe cancellato, impastando anche il sottoproletariato ai modelli della borghesia piatta e consumista, fino a uno dei testi più disperati del Novecento, “Abiura dalla Trilogia della vita” (i tre film Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte).

In quella desolazione è una macchina a lanciare un grido: “un urlo improvviso, umano/ così pazzo di dolore, che, umano,/ subito non sembra più, e ridiventa/ morto stridore. Poi, piano,// rinasce, nella luce violenta,/ tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,/ urlo che solo chi è morente,// nell’ultimo istante, può gettare […] A gridare è, straziata/ da mesi e anni di mattutini/sudori – accompagnata// dal muto stuolo dei suoi scalpellini,/ la vecchia scavatrice”. Così Sebastiano Gatto: “A sigar dal cuor del skyline/ novesentesco de operai/ rampegai su camini e siminiere,/ xé l’inceneritor./ Spua fumo da staltra parte de l’aqua/ alto su la cità che sprofonda,/ su la só storia che ga na fine/ e no tornarà a scominsiar” (“A gridare dal cuore dello skyline/ novecentesco di operai/ arrampicati su camini e ciminiere/ è l’inceneritore./ Sputa fumo dall’altra parte dell’acqua/ alto sulla città che sprofonda,/ sulla sua storia che ha una fine/ e non ricomincia”). E: “a Pier Paolo ghe vegniva speransa,/ na speransa piena de spasemo./ Ma a mi me par che desso/ no resta gnanca quela” (“a Pier Paolo entrava speranza, / una speranza piena di angoscia. / Ma a me pare che adesso / non resti neanche quella”).
C’è anche una sezione intitolata “Epicedio”, un canto funebre (famoso il canto di Catullo in morte del passero di Lesbia): un’anziana vedova, un uomo “cativo come el mal” che forse non ha mai conosciuto una carezza; un “poro can” che l’antivigilia di Natale va da una donna: non si dicono nulla, lei gli porge un Pandoro e lui, in silenzio com’è arrivato, se ne va: “El vorìa, ma no ‘l xé bon de dir “Grassie””.
“Sebastiano Gatto rinasce poeta della vita minima”, scrive Isabella Panfido nella postfazione, “con una attenzione affettuosa verso animali minuscoli, gente piccola, innocui e invisibili abitatori che non fanno rumore […] gesti e vicende, nomi e figure evocate da una visuale umanissima, simpatetica”.
Un libro del tempo, annota Davide Rondoni nella quarta di copertina: “Qui siamo dinanzi a un poeta che vivido di descrizioni e di invenzioni linguistiche si sta impegnando con il problema nel quale fisica e metafisica si incontrano, il tempo. Il problema che torce le vite e a volte le macina rendendole nuova farina per nuovo pane, è il fuoco che traversa il libro. E il poeta, lettore dialogante con Pasolini e Loi e altri, non mette in scena il tempo come ombra nostalgica o cinico reperto, ma quasi carnevale dell’Assoluto, tra un Negroni e l’Apocalisse”.
È un libro di pietra e nostalgia, di silenzi e di voci lontane, di squittii improvvisi tra le calli, di dolcissimi fantasmi. Non potevano che essere scritte in dialetto queste poesie, quel dialetto veneto/veneziano la cui musica è stata cantata da Zanzotto e che è recentemente riscoperto anche da altri autori veneziani e veneti, da Anna Toscano a Pier Franco Uliana. Dialetti che nei versi di Sebastiano Gatto ha l’intonazione di un dolente, ma innamoratissimo, canto leopardiano.

Dal libro:
Filastroca dei dì de San Mai
Filastroca dei dì de San Mai,
de salizade e cocai,
de queli che par rivar
xé do ponti e na cae;
i dì che sona le sirene de la guera
quando che l’aqua
va a sentodiése
sentimetri sul medio mar;
dì che de note se sente sigar
le sime che russa su le bricole,
el fis-cio de le navi in mezo al caligo,
i martinassi che ciama só mare;
dì che te svegia la muger sigalona
del pian de sóra col mèco infogà
o le piere sbatue da le rode dei trolley
de chi che ga el tren che parte bonora;
dì dei nissioi picai fora a sugar
co strasse, mudande, calseti
e staltre vergogne in mezo al campielo
sora i turisti imagai che fa le foto;
i dì dei batei repetai
co taca el bailamme de la Bienal,
de veci insembrai, co le sporte de la spesa,
a na masnada de artisti engagé;
i dì dei s-ciopai e dei rovinai
co la simia za a le sie de la matina
sentai sui scalini che speta
che vèrza la cantina del SERD;
i dì de la fine della Peste che intanto
che al banco spetè la castradina
na vose canta Aqua alta e un amigo
pianse in silensio pensando a só pare;
i dì che se ormegia drio la Certosa
e l’aria xé calda e se agita le stele
e tra un bicer e un boresso vien suso
un magon, ma no capisso parché;
filastroca dei dì de San Mai,
de chi che speta e spera,
filastroca che tanto, prega el tó Dio,
sta serto che no i torna indrio.
Filastrocca dei dì di San Mai
Filastrocca dei dì di San Mai
di salizade e gabbiani,
di chi per arrivare
sono due ponti e una calle;
i giorni in cui suonano le sirene della guerra
con l’acqua che sale
a centodieci
centimetri sul medio mare;
giorni in cui di notte si sentono gridare
le cime che stridono sulle briccole,
il fischio delle navi in mezzo alla nebbia,
i giovani gabbiani chiamare la madre;
giorni in cui ti svegliano gli strilli della donna
al piano di sopra con l’amante infoiato
o le pietre sbattute dalle ruote dei trolley
di chi ha il treno che parte presto al mattino;
giorni delle lenzuola stese fuori ad asciugare
con stracci, mutande, calzini
e altre vergogne in mezzo al campiello
sopra i turisti inebetiti a fare foto;
i giorni dei battelli affollati
quando comincia il bailamme della Biennale,
di vecchi mescolati, con le sporte della spesa,
all’orda di artisti engagé;
i giorni degli scoppiati e dei rovinati
con la scimmia già alle sei del mattino
seduti sugli scalini ad aspettare
che apra la cantina del SERD;
i giorni in cui appena arrivato a Piazzale Roma
ti basta annusare il salso dei rii
per avere finalmente un po’ di pace
specie quella volta in cui le cose vanno male;
il giorno della fine della Peste che intanto
che al banco aspettate la castradina
una voce canta Aqua alta e un amico
piange in silenzio pensando a suo padre;
i giorni in cui si ormeggia alla Certosa
e l’aria è calda e si agitano le stelle
e tra un bicchiere e una risata viene su
un magone, ma non capisco perché;
filastrocca del dì di San Mai,
di chi aspetta e spera,
filastrocca che tanto, prega il tuo Dio,
stai sicuro che non tornano indietro.
*
Eco, ne l’afa petalissa
de la note, tra le curve dei rii
e i riflessi de la cità co le só lusi,
bagola spiriti de tante vite
co le só gioie, le só delusion.
Na volta me piaseva
far deviasion, slongar la strada
prima de tornar in carbona,
vardar dentro le finestre de le case,
far dó ciacole co chi che ‘ndava
fora col can o a butar le scoasse.
Desso no ghe xé più nissuni:
i xé morti o foresti; o i xé stronsi.
Co i stronsi no parlava gnanca prima.
O magari so mi che so smonà,
so mi che me so fato foresto,
che so cambià. In pèzo.
Ghe xé ancora fioli che va in barca
e far notolada in Gnecca,
in Sacca o a San Clemente,
a farse na cana o a parlar.
Vedo bociasse
in campo che zoga a balon,
china-afro-giappo-ecaudor-dorsoduro,
che i siga «Ghe sboro» in pentacromia.
Stupenda e misera cità
che sensa volerlo me ga insegnà
che la grandessa de la vita
se sconde ne le monade,
ne le robe che capita ogni giorno;
dove in pase se impara
a ‘ndar duri e pronti ne la calca,
a parlar co le persone
sensa tremar;
a difenderse, a ofendar, col mondo
davanti ai oci e no solo nel cuor.
Ecco, nell’afa appiccicosa
della notte, tra le curve dei canali
e i riflessi della città con le sue luci,
circolano spiriti di tante vite
con le loro gioie, le loro delusioni.
Una volta mi piaceva
fare deviazioni, allungare la strada
prima di tornare a casa,
guardare dentro le finestre delle case,
fare due chiacchiere con chi andava
fuori col cane o a buttare l’immondizia.
Adesso non c’è più nessuno:
sono morti o stranieri; o sono stronzi.
Con gli stronzi non parlavo neanche prima.
O magari sono io che sono stanco,
che mi sono fatto straniero,
che sono cambiato, in peggio.
Ci sono ancora ragazzi che vanno in barca
tutta la notte alla Giudecca,
a Sacca Fisola o a San Clemente
a farsi una canna o a parlare.
Vedo tanti sbarbati
in campiello che giocano a pallone,
china-afro-giappo-ecuador-dorsoduro.
Che gridano «Ghe sboro» in pentacromia.
Stupenda e misera città
che senza volerlo mi ha insegnato
che la grandezza della vita
si nasconde nelle inezie
nelle cose di tutti i giorni;
dove in pace si impara
ad andare duri e pronti nella ressa
a parlare con le persone
senza tremare;
a difendersi, a offendere, col mondo
davanti agli occhi e non solo nel cuore.

Intervista a Sebastiano Gatto:
Com’è nata l’idea di un libro in dialetto veneziano?
Prima di questo libro non avevo mai scritto in dialetto, né avevo mai avuto in animo di farlo. I versi sono venuti spontaneamente, inaspettatamente. La cosa è, se vogliamo, sorprendente, non solo per il loro darsi in dialetto, ma per altre due ragioni almeno: la prima è che la lingua è il dialetto veneziano – ossia un dialetto non mio – la seconda è che sono venuti proprio quando, dopo vent’anni trascorsi nell’Isola, ho lasciato Venezia.
Non posso dunque fare a meno di pensare che il veneziano sia per me la lingua dell’addio: addio alla città, all’acqua, alle distanze misurate in minuti e non in metri, addio a una promessa che mi ero fatto e che non ho mantenuto.
E l’omaggio al Pasolini del “Pianto della scavatrice”? A 50 anni dall’omicidio qual è il tuo rapporto con il poeta friulano? La sua lezione etica, civile, intellettuale, poetica è attuale?
Fin da ragazzo ho amato Pasolini: ne ho amato l’arte (in particolare il suo cinema), ne ho amato le interviste (non so perché ma la sua voce e il suo eloquio hanno sempre avuto su di me un effetto incantatorio), ne ho amato la capacità di spiazzare, di offrire un punto di vista mai banale.
Ma se, obtorto collo, dovessi salvare un’unica caratteristica o qualità di Pasolini, direi la sua capacità di trovare la bellezza laddove nessun altro è in grado di vederla. “Il pianto della scavatrice” ne è un perfetto esempio: basterebbe il titolo, dove, con una sorta di ossimoro, il più umano degli atti, il pianto, viene attribuito a un oggetto meccanico e inerte, una scavatrice per l’appunto.
E poi tutti quei ragazzi, sporchi, sguaiati, smodati, in quella infinita periferia romana ancora in costruzione: solo Pasolini ha saputo rintracciate in quel magma la bellezza, anzi, di più, la grazia. La sua lezione più etica e civile, a mio modestissimo avviso, sta proprio qui: nell’averci insegnato a guardare l’Altro con altri occhi, ad averci fatto sfiorare con mano, per mezzo delle sue parole e delle sue immagini, la grazia.
Nei versi del libro sento una forte tensione etica per una Venezia (un mondo?) che non c’è più, non nostalgia ma la voce di una ferita: è così?
A Venezia ho trascorso vent’anni della mia vita, quelli dell’adultità. L’ho fortemente voluta e intensamente vissuta; su quei masegni ho consumato suole, su quei masegni mio figlio è cresciuto. All’epoca, per quanto già parzialmente trasfigurata, era una città ancora vivibile. Venezia chiedeva di essere vissuta non nel chiuso delle case, ma all’esterno, estate e inverno; era un luogo di condivisione e di socializzazione, un luogo di incontro e di parola. Mai avrei pensato di doverla lasciare, ancor meno avrei pensato di essere pronto a lasciarla.
Ma il giorno dell’addio è arrivato per davvero, e quel giorno, inaspettatamente, mi sono accorto di essere pronto: quella che stavo lasciando non era più la città per cui tanto mi ero speso. Per evitare i turisti vivevo ormai in 500 mq, fare le spese era una corsa a ostacoli, i prezzi erano impazziti, i veneziani spariti da qualche parte. Insomma, Venezia ha smesso di essere il luogo del dialogo e della parola. Qualcosa si è rotto ed io ne ho preso coscienza proprio quel giorno. Vedere Venezia trasformarsi in un luna park continuerà a essere una ferita; lasciarla è stata una frattura.
Ci racconti i tuoi innamoramenti poetici? Nella postfazione Isabella Panfido cita dei nomi: oltre a Pasolini, Zanzotto, Heaney, Eliot…
Essendomi impossibile fare l’elenco di tutti i miei innamoramenti poetici (innamoramenti che non necessariamente coincidono con “il più grande”, “la più grande”), citerò poeti, tre stranieri e tre italiani, lontani fra loro, che hanno incrociato via via il mio cammino, cambiandolo. Seamus Heaney per lo schiaffo della torba impregnata, Julio Llamazares per il passaggio dei buoi sulla neve, Anna Achmatova per le attese davanti al carcere di Kresty; Milo De Angelis per l’oceano intorno a Milano, Luciano Cecchinel per l’erta strada da strascico, Antonella Anedda per la luce delle residenze invernali.

L’autore:
Sebastiano Gatto è nato a Mestre, dove vive, nel 1975. Ha pubblicato i libri di poesia “Padre Vostro” (Campanotto 2000), “Horse Category” (Il Ponte del Sale 2009), “Strada lavoro” (Nervi 2015) e “Voci dal fondo” (LietoColle – Pordenonelegge 2015).
Per Amos edizioni ha pubblicato due romanzi brevi: “Le sette biciclette di César” (2012) e “Blues delle zucche” (2015). Ha curato e tradotto libri di Julio Llamazares, Miguel de Unamuno, Juan Benet, Leopoldo María Panero, Eugenia Rico, Raul Zurita.
Dal 2017 al 2022 ha curato la collana di poesia “A27” (Amos) assieme a Maddalena Lotter e Giovanni Turra.
(Sebastiano Gatto “I dì de San Mai”, postfazione di Isabella Panfido, pp. 110, 11,50 euro, Carta Canta 2025)
Immagini ——————–
Occhi falsi
di Silvia Argiolas

Voce d’autore ———————
Ma è dove continuare
Marco Di Pasquale, “La mano del mondo”
di Giovanni Fierro

“L’uomo si rompe e non si riesce a restituirne l’integro suono, così si rinuncia, si flette la volontà in mosaici di rancori”. È bene partire da questa frase, per dare l’idea di come lo sguardo sul nostro tempo contemporaneo di Marco Di Pasquale sia lucido e tagliente. “La nebbia sceglie quali occhi salvare/ se l’urlo della luce li raggiunge”, per dire anche di come la sua nuova raccolta poetica “La mano del mondo” sia atto di risulta e determinazione, ma anche invito al non cedere, al non farsi conquistare dalla sconfitta.
Perché c’è una lotta in atto, una torsione di significati e una tensione di senso ed esistenza, in questo tempo che sta portando sempre di più la nostra società nella fragilità, nelle sue espressioni più pericolose ed inquiete. “Le fessurazioni ora si squarciano/ impediscono l’incasso delle porte/ nel vento crolla l’impalcatura”, Di Pasquale questo tempo lo tratteggia perfettamente, la sua poesia è il definire il ritratto di queste disperazioni che sempre di più assomigliano al singolo giorno, lo riempiono e lo indicano, quando “i conti sono stati rimodulati, la lista/ è sempre più corta, le scorte annullate”, e “non ci concediamo l’educazione di un cenno,/ un attestato di esistenza”. Il collasso sociale è sempre più vicino, inutile nascondercelo.
E il corpo della poesia è sempre di più il corpo del poeta: “non arresta la vita il cuore/ esplora alture afose rese salate/ mette il tempo sotto le ruote/ scuote strade e pericoli scampati/ e ancora da scampare”.
Perché è attraverso la poesia che Marco Di Pasquale trova la misura più incisiva per dare forma a ciò che stiamo vivendo, che lui sta vivendo, anche il semplice saper indicare che “la rondine in alto riflette/ la luce che ci resta, vortica/ nel volo la follia di una fame/ che schianta sulla parete della notte”, e sapere molto bene che proprio in quell’attimo è racchiusa e raccolta tutta la speranza che rimane.
“La mano del mondo” è anche l’invito a non abbassare la guardia, il sapere che la tensione è alta, con la certezza che ognuno è anche “lo sguardo/ che si àncora al vuoto/ di fronte dove nulla/ odora di certezza”, fino a quando sarà possibile.
Sì, il nuovo fare poesia di Marco Di Pasquale è il gesto concreto di chi vuole rimanere dentro ogni possibile responsabilità, capace di affrontare il tempo avverso, con il desiderio di potersi orientare in una società che è smarrimento e ingiustizia, esortazione continua al costruire resistenza: “non ti stanchi la manutenzione/ del sognare, non manchi il manovrare”.

Dal libro:
affannarci in una curva alle spalle di cui ci siamo liberati,
staccando con una pedalata folle le foglie, il risucchio del
brecciolino, la fossa d’asfalto che potrebbe ingoiarci
le gambe sforzano in salita, la velocità s’ingolfa del dubbio
che si fa materia nelle bocche mascherate
dell’anziano col maglione verde marcito per ogni stagione,
della bambina che ci fissa senza averne mai saputo il nome,
della commessa che svaga l’angoscia a minimi passi verso il
supermercato
*
alla fendente luce da spiaggia di stamani domando il dono di
asciugare ogni scoria, di staccare la sfoglia ruvida che lacera
ogni smorfia, quella che ti obbliga a sorvegliarmi come fossi
un ordigno
solo mi arroventa il desiderio o apprensione di avvolgermi in
strati di piombo e salvare le giornate irradiate da questo mio
nucleo instabile
*
dei giorni mi mostri il percolare
indichi dove chiaro appare il filtro
che si ottura, dove resta sulla palpebra
come una sutura, come una schiuma
che salda nell’atto di intonare una sura
di malora, e l’aorta sfuggisse al salto
che vede la voragine e sorride
*
ogni volta che parto scatto
che spicchi il salto evolutivo
inciampi in atterraggio
vinto dal vincolo di delusione
che spegne lo slancio
ma è dovere continuare, emettere
ancora un segnale ché nella notte
un’antenna ci sarà, ché qualcuno
manderà in soccorso una sonda
consolando i vividi entusiasmi
*
non ti stanchi la manutenzione
del sognare, non manchi il manovrare
contro il conveniente e il detestato
sia stanato il trucco dell’emozione
che si possa continuare a giocare

Intervista a Marco Di Pasquale:
Tutto “La mano del mondo” mi sembra sia un fare i conti con il mondo; ma anche con se stessi? E se è così, quale il risultato?
Certamente il peso denso del mondo, che quotidianamente ci grava sulle spalle, come una mano che saggia la nostra resistenza, è una forza che tenta di plasmare il nostro esistere e con cui dobbiamo fare i conti.
Personalmente, sento che per me questo libro ha un valore emotivamente rilevante poiché dice quanto la forza del pozzo del nostro animo possa attrarci, ma anche quanto sappiamo essere resistenti quando ci affidiamo a coloro e a ciò in cui crediamo.
Di certo, nel suo raccontare e descrivere il nostro tempo, la dimensione che si percepisce è quella di vivere dentro una pressione continua, una tensione che soffoca e toglie il respiro, che porta quasi all’inazione. È solo una mia sensazione?
Spesso mi capita di non respirare: di fronte al pc, in aula coi miei studenti, quando il padrone di casa mi gioca qualche brutto tiro oppure quando vogliono convincermi che sogno troppo e che la rivoluzione non è conveniente… ovviamente non ci riescono!
Tuttavia, la pressione ci accerchia e ci impone l’apnea affinchè non abbiamo abbastanza ossigeno per impegnarci e reagire. A questo si oppone la scrittura in versi, il lavoro quotidiano di affrontare l’ostacolo e non permettere che ci tolgano il respiro.
A pagina 24 scrivi “lo sguardo si getta a mare/ nuotando via dallo spiazzo/ dove l’aria è ancora paura“. Ma cosa vuol dire, che ormai di fronte a ciò che succede, a ciò che il mondo è diventato, lo sguardo è divenuto oramai insostenibile? O cos’altro…
Questi versi nascono in una domenica di Covid, quando uscire anche solo per gettare la spazzatura sembrava essere il rischio maggiore che si potesse correre. La fuga, nel panorama fuori dal recinto di casa, erano il monte Conero ed il mare Adriatico, perciò l’unica via di fuga era lanciarsi con tutte le forze dell’immaginazione verso il mare che accoglie e abbraccia.

In “La mano del mondo” ci sono anche diversi testi che sono in forma narrativa. Come mai questa scelta? Da cosa è dovuta?
Da moltissimo tempo sperimento momenti in cui la parola si ribella alla forma verso e decide che la frase si deve fare più distesa e articolata, accogliendo una gamma di sensazioni, di ragionamenti che esprima meglio la tonalità di certe situazioni ed avvenimenti, con un risultato complessivo di stratificazione e direi anche di compenetrazione maggiore tra vissuto e trasposizione letteraria.
Mi dicono che soprattutto in ciò che appare sul mio blog questo effetto risulti più efficace, proprio come se il diario del quotidiano trovasse un correlativo perfetto in quell’esito senza a capo.
Il testo di pagina 29 (è il secondo nella selezione dal libro pubblicata qui sopra) lo vivo come un tuo personale autoritratto… Può essere così? Perché è il ritrovarti fra le sue pieghe, nel suo respiro, nel suo costruire il dubbio… Cosa ne pensi?
Come spesso mi capita, quando descrivo me stesso, non posso che farlo rispecchiandomi nello sguardo del tu che mi gravita attorno e con cui tento quotidianamente di elaborare strategie di resistenza.
Certamente, l’io di questo testo è quello singolare tutto mio, per citare la grande Patrizia Cavalli, che assomiglia spesso ad un ordigno, il cui detonatore è la fatica di vivere, lo sforzo di dare forme e comprensibilità al reale, e che è necessariamente instabile dopo ogni urto.
Continuamente, questo congegno è rimodulato a seconda delle prove a cui lo sottopone la riflessione sul mondo e quindi il dubbio è il suo carburante e, al contempo, la materia detonante, mantenuta sempre sotto controllo vigile dallo sguardo di chi sa avvolgerlo in quegli strati di piombo, parole, carezze, sorrisi, che ne limitano la pericolosità.
Il libro però, dopo una sua parte corposa in cui descrivi ed indichi tutte le criticità del nostro vivere e della nostra società, diventa anche un invito a non lasciarsi andare, a non cedere all’inettitudine. Diventa quasi un manuale di istruzioni per sopravvivere, che si prende a cura la parte emotiva, quella più sensibile e forse fragile, ma fondamentale per dare ancora un significato alla vita di ognuno. Da cosa nasce questa volontà di resistenza?
Sai, se c’è una definizione che mi sono dato e che credo mi rispecchi in maniera abbastanza precisa, è quella di ottimista combattente. Nella seconda parte del libro attingo a quel serbatoio di speranza, fragile ma tenace, che è la nostra storia, ciò che di significativo e sostanziale abbiamo sperimentato: non è consolazione o rifugio nel passato, bensì la consapevolezza di ciò che essa è pietra salda su cui costruire quel forte di cui parlavo nel testo eponimo della precedente raccolta “Formula di vapore”.
Da dove nasce questa tensione a resistere? Forse dalla testarda determinazione con cui cerco di affrontare ostacoli e rifiuti, forse da quella melodia di fondo che ho sempre nelle orecchie che mi pare di poter chiamare utopia, forse dalla fiducia nella ricerca inesausta di condivisione di una visione. Chissà?
E in tutto questo qual è il ruolo della poesia?
Senza la poesia, non avrei indicazioni di viaggio e non saprei proprio come uscire dall’oscurità. La poesia è luce, sempre.

L’autore:
Marco Di Pasquale è nato a Ripatransone (AP) nel 1976, si è laureato in Lettere Moderne a Macerata, dove risiede. È presidente dell’associazione UMANIEVENTI, è direttore artistico di Festival, contenitori poetici e rassegne letterarie sul territorio regionale marchigiano.
Ha collaborato come giurato a diversi concorsi nazionali e come critico letterario e musicale con riviste online ed emittenti radiofoniche.
Sue sillogi sono uscite in diverse antologie, tra cui “Scrittura amorosa” (2008) e “La nostra classe sepolta” (2019), oltre che in diversi siti internet (Atelier, La poesia e lo spirito, Pordenonelegge, Poetarum Silva, Versante Ripido, Perigeion, Poesia del nostro tempo, Vatra, Revista Brasileira).
Ha pubblicato i volumi “Il fruscio secco della luce” (2013), “Formula di vapore” (2017) e “Dai sentieri divorati” (2019).
Nel 2015 e nel 2017 è stato ospite in Romania al Festival “Turnilur scriitorilor” di Sighisoara ed al “Festivalul international de poezie” di Bucarest. Suoi testi sono tradotti in rumeno e portoghese.
(Marco Di Pasquale “La mano del mondo” pp. 58, 12 euro, puntoacapo 2025)
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Come la pioggia di primavera
di Silvia Argiolas

Testo unico ——————
Twilight Crepuscolo
di Louise Glück

Twilight
All day he works at his cousin’s mill,
so when he gets home at night, he always sists at this one window,
sees one time of day, twilight.
There should be more time like this, to sit and dream.
It’s as his cousins says:
Living- living takes you away from sitting.
In the window, not the world, but a squared-off landscape
representing the world. The seasons change,
each visible only a few hours a day.
Green things followed by golden things followed by whiteness-
abstractions from which come intense pleasures,
like the figs on the table.
At dusk, the sun goes down in a haze of red fire between two poplars.
It goes down late in summer- sometimes it’s hard to stay awake.
Then everything falls away.
The world for a little longer
is something to see, then only something to hear,
crickets, cicadas.
Or to smell sometimes, aroma of lemon trees, of orange trees.
Then sleep takes this away also.
But it’s easy to give things up like this, experimentally,
for a matter of hours.
I open my fingers-
I let everything go.
Visual world, language,
rustling of leaves in the night,
smell of high grass, of woodsmoke.
I let it go, then I light the candle.
Crepuscolo
Tutto il giorno lui lavora nella fabbrica di suo cugino,
sicché quando torna a casa di sera, siede sempre alla stessa finestra;
vede uno stesso tempo del giorno, il crepuscolo.
Ci dovrebbe essere più tempo così, per star seduto e sognare.
È quel che dice suo cugino:
Vivere- vivere ti distoglie da star seduto.
Nella finestra, non il mondo, ma un paesaggio squadrato
che rappresenta il mondo. Le stagioni cambiano,
ciascuna visibile solo per alcune opre al giorno.
Cose verdi seguite da cose dorate seguite dal bianco-
astrazioni da cui derivano piacere intensi,
come i fichi in tavola.
All’imbrunire il sole tramonta fra due pioppi in una foschia di fuoco.
In estate tramonta tardi- a volte è difficile restare svegli.
Poi tutto scompare.
Ancora per un po’ il mondo
è qualcosa da vedere, poi solo qualcosa da udire,
grilli, cicale-
O a volte da odorare, il profumo di limoni, di aranci.
Poi il sonno porta via anche questo.
Ma è facile rinunciare a tutto questo così, come per prova,
per qualche ora.
Apro le mie dita-
lascio andare tutto.
Mondo visibile, linguaggio,
stormire di foglie nella notte,
odore d’erba alta, di fumo di legna.
Lascio andare, poi accendo la candela.

Louise Glück, ancora per un po’ il mondo
di Annalisa Ciampalini
La poesia che ho scelto di commentare si intitola “Crepuscolo” (Twilight). L’autrice è la saggista e poetessa Louise Glück, premio Nobel per la Letteratura nel 2020. La poesia è tratta dalla raccolta “Una vita di paese” (Il Saggiatore, 2024), nella traduzione di Massimo Bacigalupo.
Si tratta di una raccolta formata da 41 testi scritti in una lingua piana, vicina a quella parlata, estremamente efficace per portare in poesia la quotidianità della vita di coloro che abitano il paese a cui si riferisce il titolo del volume.
“Crepuscolo” inizia descrivendo il momento in cui un uomo torna a casa dopo aver lavorato tutto il giorno: “Tutto il giorno lui lavora nella fabbrica di suo cugino,/sicché quando torna a casa di sera, siede sempre alla stessa finestra;/ vede uno stesso tempo del giorno, il crepuscolo”.
Il titolo della poesia è molto importante perché consente al lettore di immaginare la scena descritta, immersa nella luce crepuscolare, e mentre il mondo visibile scompare nell’oscurità, anche i sensi cercano riposo, si attutiscono: “Ancora per un po’ il mondo/ è qualcosa da vedere, poi solo qualcosa da udire,/ grilli, cicale -/ O a volte da odorare, il profumo di limoni, di aranci./ Poi il sonno porta via anche questo”.
Alla fine, non resta che abbandonarci al sonno, mollare la presa: “Lascio andare, poi accendo la candela”.
Con un verso lungo e avvolgente e una perfetta sequenza di immagini e riflessioni, Louise Glück riesce a creare un’atmosfera incantata che coinvolge totalmente il lettore. Ho pensato di proporre questa poesia perché nel tempo ha assunto, e sta assumendo sempre di più, una precisa identità: lo spazio domestico in cui l’uomo siede guardando il paesaggio che svanisce nell’oscurità ha acquisito, per me, una forma definita e riconoscibile, ed è come se mi trovassi accanto all’uomo, immersa nelle sue immagini.
Se osservare lo stesso paesaggio, dallo stesso punto di vista e alla medesima ora può sembrare riduttivo, è altrettanto vero che la scrittura della Glück riesce a creare una situazione in cui i pensieri diventano fluidi, profondi, capaci di farci dimenticare, almeno per un po’, qualsiasi forma di limitazione.
Le autrici:

Louise Elisabeth Glück (New York 1943 – Cambridge 2023) è stata una poetessa e saggista statunitense.
Nel corso della sua carriera ha pubblicato dodici antologie di poesie. Nel 1993 ha vinto il Premio Pulitzer per la poesia per la sua raccolta “The Wild Iris”, ottenendo il primo di una lunga serie di riconoscimenti. Nel 2014 ha vinto il National Book Award per la poesia, mentre nel 2003 era stata insignita del prestigioso titolo di poeta laureato degli Stati Uniti.
Nel 2020 le è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura “per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale“. Ha insegnato poesia all’Università di Yale.

Annalisa Ciampalini è nata a Firenze nel 1968 e lavora a Empoli, dove risiede. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta “L’istante si dilata” con Ibiskos Editrice, nel 2014 la raccolta “L’assenza” edita da Ladolfi Editore. Nel 2018 pubblica “Le distrazioni del viaggio” con Samuele editore, libro tradotto in spagnolo da Antonio Nazzaro. Suoi contributi appaiono su diverse antologie edite da Fara editore.
Insieme a Giancarlo Stoccoro ha contribuito al libro “Pierino Porcospino e l’analista selvaggio” (ADV Publishing House 2016) volume che raccoglie testi di diversi autori.
Nell’aprile 2022 pubblica “Tutte le cose che chiudono gli occhi” (peQuod, collana portosepolto diretta da Luca Pizzolitto). È redattrice del blog letterario Bottega Portosepolto.
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Love
di Silvia Argiolas

Voce d’autore —————–
Su questo altare
David Bandelj, “Undici anni e mezzo di silenzio”
di Anna Piccioni

In questa silloge, a titolo “Undici anni e mezzo di silenzio”, David Bandelj dà voce alle emozioni provate dopo un viaggio ad Auschwitz. Sembra proprio che quei luoghi di orrore gli parlino e raccontino, ed egli raccoglie immagini, storie, memorie, rivoltando quella terra per disseppellirne tutte le voci.
“Non vedo bene/ dove tutto ha inizio […] ciò che rimane/ è il defluire dell’umanesimo/ cui nessuno è avvezzo”… così David Bandelj si rivolge al lettore raccontando la sua prima impressione; quasi una nebbia avvolgesse, fino a cancellare, quello che quei luoghi possono far ricordare.
Come Orazio Bandelj vorrebbe “erigere un monumento o fare di me stesso veggente”, per dare dignità a quegli uomini, donne, vecchi, bambini, che senza nessuna colpa sono stati costretti ad abbandonare la loro umanità: “dimenticherete che la libertà di scelta è un lusso”. La parola della Poesia ha ancora la forza di immortalare ciò che le narrazioni vorrebbero seppellire.
Il Poeta affronta un tema molto difficile: trasmettere la disumanità, anzi l’orrore della disumanità, “la grandezza dei potenti o dei folli”, la disumanità degli aguzzini e la disumanità delle vittime, trasportati su carri bestiame, “vagone/ che puzza di angoscia”.
Tra i suoi versi si intuisce la sofferenza di entrare in quei luoghi, il raccontare una tragedia umana con grande forza empatica, “Ciò che vediamo/ non possiamo dirlo/ in nessuna lingua”.
Ad un certo punto tutto sembra entrare nella normalità di un pensiero atroce che si realizza in una quotidianità scontata: corpi vuoti frantumati in una routine meccanica, “Ogni passo/ frantuma sotto di sé/ un po’ di coscienza/ frantuma sotto di sé/ ogni passo”.
Le parole rimandano immagini, trapassando i nostri corpi; le parole sono strali che affondano le loro lame, “Lentamente/ da/ me/ si stacca/ la pelle/ che/ sarà/ polvere/ e/ cenere”.
Forse l’orrore è possibile trasmetterlo proprio nel momento in cui la parola, nella sua semplicità, realizza la sua essenza: “neppure il vento conosce pietà/ e mentre divora la mia pelle/ penso che tu mi accarezzi”.
Uno strazio violento scarnifica i corpi; un fuoco divampa sotto la pelle; cani squartano non uomini, ma bestie senza anima, “Gli animali ci scrutano/ come fossimo prede/ in verità vi dico/ già siamo divorati”.
È lo sfinimento di corpi ormai trascinanti, vuote carcasse, che non hanno nemmeno la forza di chiedersi dove sia Dio.
E dopo questa esperienza il ritorno a casa si trasforma in un rito: togliere il fango incastrato sotto le scarpe e raccoglierlo in una scatolina e sotterrarla, perché non è fango, “sono persone”, non vanno lavate le scarpe, “ciò che rimane di tanti/ camminerà con me”.
“Undici anni e mezzo di silenzio” ha il sostegno del Circolo Culturale di Sdraussina, della Fondazione Roberto Visintin e dell’Associazione Apertamente, tutte realtà che hanno sentito nelle parole di David Bandelj l’intensità nel descrivere “le drammatiche, aberranti, situazioni e condizioni di un essere umano ridotto a un numero nei campi di sterminio della follia nazista”.

Dal libro:
569498
S katero pravico si v kožo
zarisala mojo bolečino
abstraktno povezuješ s koristnim
da se zdi realno
sanjaš da imaš okrog sebe upornike
toda so samo njihove sence
ki so že zdavnaj izsanjale podobo
svoje zmage
in jahaš na tem
polagaš plast za plastjo
v kožo ujetih ker veš
za vzgibe in za moč
ki nas izžema
glej kako žge
kot bi z dletom grebla
v dojenčkovo meso
to postavljaš za merilo
medtem ko iz negotovih globin
kličejo obronki glasov
eden izmed njih bo ključen
in nas bo pripeljal do smisla
569498
Con quale diritto nella pelle
hai disegnato il mio dolore
unisci l’utile all’astratto
sembra quasi realtà
immagini di esser circondata da ribelli
sono solo le loro ombre
che da tempo hanno cancellato l’immagine
della vittoria
e te ne approfitti
uno strato sopra l’altro deponi
nella pelle dei prigionieri
conosci gli impulsi e la forza
che ci stremano
guarda come brucia
come scalpello che scava
nella carne di neonato
questa è la misura
mentre da profondità incerte
chiamano voci lontane
una sarà la chiave
che svelerà il senso
*
DO KOD
Nekje
se
mora
zgoditi
dno
bom sploh videl
prvi sneg
FIN DOVE
Si vedrà mai
il fondo
di questo
abisso
forse non vedrò cadere
la prima neve
*
OBREDI SLOVESA
Najprej sem buden
nato me začenja dušiti
tedaj stečem tja
in kopljem
in kopljem in rijem
in prevračam zemljo
dokler ne potegnem
iz nje
vseh glasov
enega za drugim
spravljam na plan
tiste bolj ohranjene
dam na eno stran
jih spet zagrebem
pognojim in takoj
začnejo cveteti
one zlizane zadržim
jih naredim vidne
ohranim
dajem obliko
na novo
jim odvzemam tišino
in jih postavljam na oltar
na ta oltar
LA CERIMONIA DEGLI ADDII
Sono sveglio
mi sento soffocare
e corro là
scavo
scavo e dissotterro
rivolto la terra
fino a disseppellire
tutte
le voci
che una dopo l’altra
riporto alla luce
quelle più chiare
depongo da un lato
le riadagio nella terra
le nutro ed ecco
iniziano a fiorire
trattengo le flebili
le rendo visibili
le conservo
ridono forma
le libero dal silenzio
e le innalzo sull’altare
su questo altare

Intervista a David Bandelj:
Qual è il significato del titolo “Undici anni e mezzo di silenzio”?
Se per ogni vittima dell’Olocausto, stessimo in silenzio per un minuto, arriveremmo a undici anni e mezzo di silenzio. Un dato raccapricciante, ma altrettanto evocativo e paradossale, poiché il silenzio non ce lo dobbiamo più permettere
In alcune poesie Lei si rivolge a un femminile non identificato; intende la morte?
Il femminile non identificato ha un varietà di significati. Mi evoca La morte, La storia, La malvagità, il femminile è dato un po’ dal genere dei sostantivi, ma anche dalla mia volontà di rappresentare questi elementi anche come ammiccanti, in un certo senso erotici.
Non volevo banalizzare tutto con un racconto a due tinte oppure diventare patetico. Ho scelto la via di evocare immagini dove il male potrebbe essere invitante, visto che purtroppo lo è stato e vedo che disgraziatamente lo è ancora.
Pur essendo molto giovane dà l’impressione di raccontare un suo vissuto: è necessaria una profonda empatia e sensibilità per riuscire a trasmettere quella tragedia…
Grazie per il “giovane” … Dopo aver visitato questi luoghi l’unico modo per raccontarli è immedesimarsi, ma non solo nelle vittime, anche in coloro che erano i carnefici e soprattutto nella massa grigia di uomini e donne che non hanno fatto nulla per impedirlo. Non per colpa, ma la condizione umana spinge spesso all’indifferenza.
Ho soltanto cercato di raccogliere voci, perché nulla cada nell’oblio, né la memoria di chi è stato vittima, né il monito che sia possibile essere carnefici, tanto meno il ricordo che nella maggior parte delle persone non ha scelto ma si è fatta “pettinare la coscienza”.
Quale valore ha il testo Litanie, elenco di persone che portano il suo nome?
Ho voluto dimostrare ancora una volta, quanto tutti noi umani siamo stati legati da un comune destino. Un solo uomo ucciso rappresenta la sconfitta dell’umanità. Le vittime, che portavano il cognome simile al mio, mi hanno ricordato di quanto la cosa che ci lega tutti è sempre la nostra condizione umana, al di là delle differenze di cultura, religione, lingua o quant’ altro.
A riguardo di tutto questo, quale significato dovremmo dare alle parole di Zoran Mušiči, ovvero “Non siamo gli ultimi”?
Purtroppo come molti artisti, Mušič è stato profetico. E non dobbiamo metterci mani sugli occhi, ma la consapevolezza che il detto di George Santayana “chi non conosce il proprio passato è destinato a ripeterlo”, purtroppo non ha attecchito. Neppure questo, come stiamo denotando in questo momento storico, ci dà la sicurezza che il male non prevarrà.
Dopo Auschwitz c’è stata Srebrenica, c’è stato il Ruanda, c’è Gaza … Dobbiamo avere orecchie, occhi e coscienze tese. Poi – forse – saremo gli ultimi.

L’autore:
David Bandelj (1978) poeta e musicista, traduttore, è nato a Gorizia, dove vive. Ha
conseguito il Dottorato di letteratura comparata all’Università di Ljubljana.
Ha pubblicato diverse raccolte di poesie: “Klic iz nadzemlja” (2000), “Razprti svetovi” (2006), “Odhod” (2012), “Gorica – Gorizia” (2014), “Enajst let in pol tišine” (2020), “Ronin” (2022), il saggio “Razbiranja žarišča” (2008), e due monografie storico-letterarie: “V iskanju jaza: teorija in praksa dnevniške književnosti” (2013) e “Obrazi slovenske literature” (2014).
Pubblica le sue poesie nelle principali riviste letterarie slovene e nelle traduzioni (italiano, inglese, macedone, ceco, polacco). Partecipa a diversi festival letterari locali e internazionali.
Ha ricevuto diversi premi nazionali e internazionali. Ha tradotto in lingua slovena poesie di autori italiani e friulani (Tommaso Campanella, Dario Bellezza, e Celso Macor) e di poeti nativi australiani e alcuni classici latini.
Dirige il Coro misto giovanile Emil Komel di Gorizia con il quale ha conseguito molti premi nazionali ed internazionali. Dirige anche il Komorni orkester NOVA di Nova Gorica.
(David Bandelj “Undici anni e mezzo di silenzio”, traduzione di Aleksandra Devetak, pp. 186, 17 euro, Qudu editore 2025)
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Belle brutte storte e morte
di Silvia Argiolas

Tempo presente—————
A novembre si rinasca
Un testo inedito
di Antonio Cassuti

Per Enzo cultore di ascolto
e dolci abbracci
Si rinasca ogni anno
con novembre
che lievita
la voglia del divenire
maturo
nell’apparente identità
che sta in noi
Come avvertiamo
altrove
nella giostra delle stelle
compagne nostre
in cammino
che profumano di eterno
È mio abito
normale forse non direi
muovere il cuore
tra le case del villaggio
ad ascoltare le voci
che sussurrano
il loro a presto
d’affetto colmo
Sono le morti piccole
e quelle grandi
che si raccolgono
in un angolo di strada
che fantastica fiori
primaverili
Ogni anno
i giorni primi
di novembre
Raccontano che i mortivivi
sono in comunione
con noi e per noi
come insegna la memoria
se cresciuta a dovere
Non vi è pianto
o gioco fatuo
che porta ovunque al nulla
ma invito a coltivare
l’amore che ci conduce
oltre e altro
vinta l’avarizia di Chronos
I mortivivi e noi assieme
si dialoga sull’incontro
oggi
e sul domani che potrà
farsi cosa comune
La speranza così racconta
Una voce infine
angelica a dire
suggerisce la comunione
lo stare assieme
serenamente avvolti
loro e noi
dalla meraviglia
di un dolce abbraccio
Giacchè lo spirito muore
certo che muore
ma solo per chi
nel male
consuma i suoi giorni
Ma io di fortuna so
respirare con gli amici
che sono altro e oltre
di giacinto e gelsomino
gli umori amati
Il mio corpo così rinasce
in beltà e grazia
con l’aiuto di chi è vivo
ora e sempre
nei nostri cuori
Perché già stato
giusto da queste parti
dell’amore
cultore attento
Le anime del villaggio e noi
siamo comunità
misteriosamente svolta
e nuova sempre
Questo reclama
il desiderio
che vive in noi
Aspirazione incorrotta
fors’anche divina
Si rinasca ogni anno
con novembre
che lievita
la voglia del divenire
maturo
nell’apparente identità
che sta in noi
Come avvertiamo
nella giostra delle stelle
compagne nostre
in cammino
che profumano
di eterno
2 novembre 2025

L’autore:
Antonio Cassuti, veneto-praghese, vive a Schio. È laureato in Filosofia all’Università di Padova e in Scienze Politiche all’Università Cattolica di Milano. Studioso delle Democrazie popolari in Europa ha scritto libri e pubblicato saggi in materia. In particolare sul Socialismo dal volto umano della Primavera di Praga.
Su queste tematiche e sulla lingua e letteratura ceca, ha fatto studi anche nelle Università Carlo di Praga e T. G. Masaryk di Brno ed ha tenuto seminari quale professore invitato, presso l’Università di Padova.
Ha fondato e diretto la rivista “Spazio Mitteleuropeo. Saggi e contributi sulla Mitteleuropa”.
Ha creato “Flussidiversi Poesia e poeti di Alpe Adria” (2008-2014), di cui è stato Curatore Scientifico.
Pratica la poesia della povertà, così dice, sviluppando in particolare il rapporto tra l’Amore e il Tempo; ama accostare poesia e dimensione religiosa pura, per la comunanza nel praticare un orizzonte oltre l’orizzonte e la aspirazione alla trascendenza.
Tra le sue pubblicazioni, “L’amore e il Tempo” (1982), “La città d’oro e dintorni” (1986 – L’edizione in lingua ceca è del 1990), “Il tempo breve dell’amore” (2002), “L’amore e il tempo in Dio” (2008).
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Spettri
di Silvia Argiolas

Tempo presente —————–
L’unico posto per noi
Maddalena Lotter, “Non è la fine del mondo”
di Roberto Lamantea

Il “timbro”, lo stile, dell’autrice, è già in “Atlante di chi non parla” (Aragno 2022), il libro che raccoglie quattordici composizioni – o “movimenti” – scritte tra il 2018 e il ‘21, con rimandi a geologia, paleontologia, musei di storia naturale e di anatomia dove sono esposte creature misteriose e inquietanti, il sole è disciolto in una polvere viola, i versi sono abitati da creature misteriose, la prospettiva temporale è spalancata sugli abissi della fisica e della fantasia.
Con il suo nuovo libro, “Non è la fine del mondo”, Maddalena Lotter va più in là e abbraccia scenari, prospettive spaziali e temporali da fantascienza, ma dove la science (o literary?) fiction è – come in Solaris di Tarkovskij – paesaggio dell’anima. La cornice è quella di una robusta cultura classica, dalla mitologia greca alla letteratura latina, del cinema di fantascienza e della musica metal.
Navi e aerei affondati nell’oceano, dilatazioni e distorsioni temporali, silenziose creature degli abissi che forse sono – proprio come in Solaris – spettri della mente, pianeti dove l’aria è nera, enormi rettili, varani, dinosauri, balene vincitrici sulla tecnologia e la temerarietà umana: cinema, musica, letteratura abitano questi versi, da Titanic a Conrad, da “Urania” (nella postfazione Marco Malvestio rinvia alle illustrazioni di Karel Thole) a Lovecraft, il geniale e folle scrittore di Cthulhu e del Necronomicon forse più grande di Poe (“C’è sempre stata la possibilità di un grande male, in questo mondo, e ci sarà sempre. Nella forma di un capodoglio o di un capitano, il Male non lascerà mai questo pianeta”) alla musica funeral doom – ramo dell’heavy metal – con band come i finlandesi Thergothon, “voce con growl abissale e cavernoso” con sonorità che paiono provenire dagli abissi, nella nota finale l’autrice cita la band tedesca Ahab (ovvio il calco fonico di Achab). Le vertigini del tempo con dispacci che rinviano all’astronave Nostromo della saga di Alien (soprattutto il primo film) di Ridley Scott: le date segnano gli anni 3880, 2647, 2083, 2651, 4023 d.C. Perché “così belle sono sempre e solo/ le realtà impossibili”.
Il libro si chiude con l’équipe della Space Mission Control ELSA/NASA Houston in conferenza con il Presidente mentre un uragano si abbatte sui vetri della Casa Bianca: il sistema di intelligenza artificiale Humanity ha interrotto ogni contatto con la base terrestre: “Pare che l’intelligenza Humanity si sia chiusa in una sorta di silenzio”. Trionfo dell’AI sull’intelligenza umana? della macchina sulla biologia? del mistero sulla scienza? Impossibilità del linguaggio – la lingua, la scrittura, la poesia – di dire l’oltre? Oppure la macchina si è arresa e ha rinunciato a comunicare con il genere umano?
Questo bellissimo e originale libro si chiude proprio come i migliori racconti di SF, apologhi filosofici sulla nostra natura e il nostro destino: con una domanda. Maddalena Lotter si conferma come una delle autrici più originali e visionarie della poesia italiana.
Il libro è pubblicato dalla casa editrice Mar dei Sargassi di Napoli nella collana “Apnea” diretta da Giuseppe Nibali: una nuova sigla dedicata alla poesia nel panorama editoriale italiano, segno che la più negletta delle arti della scrittura è – sottovoce, sottocorrente – più viva che mai.

Dal libro:
E pensare che era stata l’idea migliore
nel tempo abbandonata,
così belle sono sempre e solo
le realtà impossibili.
Rughe fonde della terra
taglienti picchi di nera roccia
e fuoco, e zolfo furente
questa è ora
Europa
dormiente, che non sapeva di finire
niente nel niente.
*
Mare di Barents, anno 3880
C’è finalmente qualcosa
in profondità. Le immagini
mostrano la carcassa nera
di quello che sembra un serpente marino.
Le sentinelle scivolano a chiamare il Capitano
che riposa titanico nella sua cabina.
Le immagini sono poco chiare, dice 138,
stimiamo una lunghezza
ma è presto per dirlo.
L’essere che si fa chiamare Capitano
avvicina tutti i suoi sguardi al monitor.
Quello che sembra un rettile giace immobile
da tempo immemore.
“Quello, Tenente 138, non è un serpente.
È il relitto
del sottomarino nucleare Belgorod
affondato migliaia di anni fa.”
*
Qualcuno investe miliardi
in un’illusione di civiltà
interplanetaria
che è economicamente
affascinante ma
fisicamente impossibile.
L’unico posto per noi
era questo
come è evidente
data la perfezione di un’atmosfera gentile
e l’acqua liquida e il suolo fecondo
che diedero la vita così com’è:
grande foresta accogliente
e loro ribatteranno
che anche in altri mondi c’è vita
sì
certo che c’è
ma è un’altra.
*
Qui altrove IV
Nell’ultimo giorno del mondo
per come noi lo conosciamo
su muri rossi e affumicati
torreggia un immenso varano,
le scaglie del dorso rilucono
in brevi lampi d’argento
l’occhio sottile è puntato
su quello che resta della foresta
e la furia del fuoco sulle città abbandonate
segna l’inizio, o il ritorno
a una durevole e stabile
e leggendaria era dei rettili.
*
È difficile entrare
nell’intrico del fogliame,
la foresta è fitta, umida, a fatica
si respira nel grande regalo
dell’atmosfera.
La spedizione procede a passi lenti
nel bosco dove scarsa penetra
la luce verde della stella di Prospero;
immersa nella melma fino al ginocchio
la donna valuta
foglie che sembrano mani.
Vibrano di ricordi
i verdi arbusti di angiosperme.
Che pianeta è questo, compagni?
In un altro tempo
noi ci siamo già stati.
Infinita oltre lo sguardo si allunga
rigogliosa la macchia
e due occhi antichi
emergono dal fiume per guardare.

L’autrice:
Maddalena Lotter è nata nel 1990 a Venezia. È autrice dei libri di poesia “Verticale” (Lieto Colle/Pordenonelegge 2015) e “Atlante di chi non parla” (Nino Aragno editore 2022). Nel 2019 pubblica la silloge dal titolo “Questioni naturali” all’interno del XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos) a cura di Franco Buffoni, con prefazione di Gian Mario Villalta.
Suoi testi sono raccolti anche in diverse antologie cartacee e nei maggiori siti letterari italiani (Nuovi Argomenti, Nazione Indiana, Poesia di Luigia Sorrentino e altri).
Vincitrice nel 2014 del Premio Teglio (categoria under 40) e nel 2016 del Premio Fiumi. Finalista nello stesso anno al Premio Carducci, con Daniele Gorret e Vivian Lamarque. Con i poeti Sebastiano Gatto e Giovanni Turra ha diretto la collana di poesia A27 di Amos Edizioni.
(Maddalena Lotter “Non è la fine del mondo”, postfazione di Marco Malvestio, pp. 80, 15 euro, Mar dei Sargassi 2025)
Immagini ——————–
Stanca santa gatta
di Silvia Argiolas


Intervista a Silvia Argiolas:
di Giovanni Fierro
La donna è la protagonista principale dei tuoi lavori. Ma che tipo di donna è? Di certo non una donna omologata ai soliti e banali canoni di bellezza che la società ha ormai imposto come modello…
Le mie donne sono come sono. Non hanno velleità di bellezza, non cercano di piacere o di aderire a uno standard. Sono corpi e volti che esistono al di là dei modelli che la società impone, perché ciò che la società vuole è solo la conseguenza di ciò che ci viene continuamente mostrato. Io cerco di restituire una verità più istintiva, più imperfetta, ma anche più viva.
Queste figure femminili mostrano molto di sé, soprattutto fisicamente, ma cosa nascondono? Per scelta o per necessità…
Per scelta, naturalmente. Le mie donne non sono vittime: sono figure forti, consapevoli, che sanno ciò che vogliono. Possono sbagliare, cadere, ma non smettono mai di vivere. Non si censurano, non cercano di apparire migliori. Accettano il rischio e lasciano andare la vita, con tutta la sua bellezza e la sua crudeltà.
Dal foglio formato A4 alle grandi dimensioni, cosa cambia nel tuo fare pittura, e cosa rimane uguale?
In realtà per me non cambia molto. Le opere più piccole, come gli A4, sono spesso un pretesto per studiare in modo quasi inconscio quello che poi svilupperò nei lavori più grandi. Sono come appunti visivi, esercizi di libertà dove si concentra l’idea iniziale, l’intuizione. Quando passo a una scala più ampia, quella stessa energia si espande, ma il gesto, l’emozione e la materia rimangono gli stessi.
C’è sempre e comunque tanta sensualità, che forse è proprio una cifra stilistica, non solo delle protagoniste dei tuoi quadri, ma del tuo stesso fare arte… Sei d’accordo?
Assolutamente sì. Il mio lavoro si fonda sul desiderio. Il desiderio è ciò che muove il mondo, ciò che ci tiene vivi. Essendo lacaniana, per me è naturale pensare che tutto nasca da lì: dal vuoto, dalla mancanza, da ciò che desideriamo e non possiamo mai del tutto possedere. La sensualità è solo una delle forme attraverso cui questo desiderio si manifesta.
Gli sguardi sono protagonisti assoluti di questi lavori, in particolare dell’installazione “Belle brutte storte e morte.” Che sguardi sono?
Sono sguardi di donne morte dentro, ma non nel senso tragico del termine. Dietro quella apparente staticità si muove un intero universo. Sono donne differenti, ognuna con la propria storia, ma allo stesso tempo tutte uguali, come se condividessero una stessa ferita invisibile.
Gli sguardi sono ciò che resta quando tutto il resto si dissolve.
C’è sempre una grande presenza di colore, che però a fatica riesce a rimanere nelle forme, nei limiti. Mi sembra una tensione che si carica, che desidera trovare sfogo… Mi sbaglio?
Il colore è una conseguenza inevitabile. Sono una colorista, e il colore per me è un linguaggio autonomo, emotivo, carnale. Lo studio, lo amo, lo lascio esplodere.
Non mi interessa contenerlo, ma lasciarlo respirare. È come un’energia che attraversa la superficie, che supera i contorni, perché la vita stessa non ha contorni netti.
E mi sembra che ogni immagine sia immersa in un silenzio che fa riflettere, che trattiene pensieri e considerazioni. Che rapporto hanno con il silenzio le protagoniste delle tue immagini?
Il silenzio può essere un urlo. È qualcosa che vibra, che pesa, che dice anche quando tace. Le mie donne convivono con quel silenzio, lo abitano. Non hanno bisogno di spiegarsi: i loro corpi, i loro sguardi, la pittura stessa parlano per loro. Le parole volano, ma il silenzio resta, e a volte è più eloquente di qualsiasi discorso.

L’artista:
Silvia Argiolas nasce a Cagliari nel 1977, vive e lavora a Milano.
La sua ricerca nasce da una trasformazione introspettiva di ciò che accade nella propria esistenza, fatti, odori, incontri. Lavorando con il mezzo pittorico, attraverso un intervento diretto sulla tela, gioca con un forte simbolismo ed espressività dal sapore arcaico, accompagnate da una ricerca sui temi sociologici e da un interesse per le teorie della moderna psicologia lacaniana.
Tra le sue mostre personali più recenti: 2023 “Passano le nuvole si copre la luna di miele”, a cura di Federico Mazzonelli alla Paolo Maria Deanesi Gallery; 2022 “Song of my self “alla Galleria Richter Fine Art e “Ragazze” alla ÖGGK di Vienna, curata da Angela Stief (direttrice della Albertina Modern); 2021 “Promiscuità e Compassione” ad Adiacenze, Bologna; 2019 “Tragödie” a Casa Testori, Novate Milanese (MI), “Ti amo dal profondo del mio odio” presso la Galleria Richter Fine Art a Roma; “Als ich begriff, dass sterblich bin” alla Galerie Rompone a Köln, Germany; 2015 “Last Moments” alla Robert Kananaj Gallery, Toronto; 2014 “A Day In The Life” alla L.E.M e “Walk on the wild side (Conversion Of Evil”) presso la Galleria Antonio Colombo, Milano.
Tra le sue mostre collettive più recenti: “FEDELI ALLA LINEA” a cura di Andrea Losavio; 2021 “Marginalia – Le forme della libertà” al Castello Visconteo di Pavia; 2020 “PHOENIX – the resurrection show” alla Galerie Rompone a Köln in Germania; 2015 “PanoRama” a Torino e “La famosa invasione degli artisti a Milano” presso la Galleria Antonio Colombo, Milano.
Le sue opere sono state esposte in diverse occasioni tra cui molte fiere di arte contemporanea, una tra tutte Artissima nel 2017.
È presente in diverse collezioni e fondazioni: Fondazione Banco di Sardegna, Piccolino Collection, Fondazione Coppola, Videoinsight® Foundation, Collezione Rivabella, Collezione Mac Lula.
rivista Fare Voci
curata da Giovanni Fierro
collaboratori:
Roberto Lamantea, Anna Piccioni, Antonio Nazzaro, Antonello Bifulco, Luigi Auriemma, Laura Mautone, Ilaria Battista, Livio Caruso.

